Articoli e Direzione Scientifica a cura del
Dott. Pierpaolo Casto

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Come curare gli attacchi di panico

COME CURARE E GUARIRE DAGLI ATTACCHI DI PANICO

La maggior parte degli specialisti concorda che il miglior trattamento è un’integrazione tra terapie cognitive e terapie comportamentali. Anche il farmaco in alcuni casi potrebbe essere un aiuto, tuttavia è sempre da ricordare che il farmaco non potrà cambiare le convinzioni che sono alla base dell’esordio, del mantenimento e della cronicizzazione del disturbo. Spesso il paziente che si sottopone ad una terapia cognitivo comportamentale è un paziente che racconta una lunga storia di trattamenti farmacologici.

Il paziente racconta di essersi sottoposto a diversi trattamenti, spesso con ansiolitici e con antidepressivi; di aver avuto periodi di alti e bassi, tuttavia di non essere riuscito mai a superare realmente il problema. Racconta di grandi speranze, forse di qualche risultato, anche se ben presto è arrivata una nuova crisi e di nuovo lo scoraggiamento.

La prima parte della psicoterapia è di tipo informativo: il paziente viene aiutato a capire cos’è esattamente una crisi di panico; il paziente viene aiutato a comprendere esattamente cosa significano i sintomi che vive e gli viene insegnato a dare una giusta interpretazione attraverso una ristrutturazione cognitiva. Gli vengono insegnate quelle tecniche necessarie a sostituire i propri pensieri in pensieri realistici. La terapia cognitivo comportamentale può aiutare il paziente ad riconoscere un attacco prima che questo si verifichi e a neutralizzarlo completamente. L’evento scatenante potrebbe essere semplicemente un pensiero, di trovarsi in una situazione, o anche un leggero cambiamento della propria frequenza cardiaca, o della sudorazione. Una volta capiti i meccanismi di innesco del panico queste condizioni perdono la propria capacità di indurre la crisi.

Una delle più importanti strategie di terapia comportamentale utilizzata nella cura di questo disturbo è la e desensibilizzazione sistematica, strategia che viene utilizzata anche nella cura delle fobie; in questo caso questa strategia si concentra nell’esposizione del paziente sia la alle situazioni che temute che alle spiacevoli sensazioni fisiche che il paziente avverte durante una crisi.

Esporre il paziente ad una situazione temuta può far comparire velocemente i sintomi di una crisi (battito cardiaco accelerato, vampate di calore, sudorazione, ecc.) tuttavia il paziente si troverà in una situazione controllata e con l’aiuto del terapeuta che gli potrà insegnare a interpretare e a gestire questi sintomi anche quando si sviluppano in un vero attacco di panico. Il paziente sin dalle prime sedute inizia a sentirsi meglio, inizia a constatare, attraverso presa di coscienza, quello che è realmente una crisi di panico; inizia a sentirsi meglio e a notare che la frequenza delle crisi e l’intensità delle crisi stesse diventa sempre più notevolmente ridotta. In genere questo miglioramento avviene sin dalle prime sedute dando al paziente la piacevole constatazione di essere più padrone di se stesso e di poter riuscire a gestire (a differenza di quello che credeva) le manifestazioni dei sintomi di panico. Il paziente impara a rallentare le crisi, riesce a far muovere tutto al rallentatore riuscendo così ad analizzarne le singole componenti e a trovare il tempo utile e necessario per contrastarle.

 

Quando lo psicoterapeuta si accinge ad occuparsi di un paziente, innanzitutto deve poter valutare la situazione in maniera adeguata ed escludere immediatamente che non si tratti di un disturbo derivante da patologie organiche. In una terapia cognitivo-comportamentale, è fondamentale il “qui e ora”, e non la situazione generale, viene analizzato il modo in cui il paziente reagisce alle varie situazioni, e le sensazioni in esso suscitate; questo approccio consente al terapeuta di conoscere a fondo la persona che ha davanti non solo a livello cognitivo ma anche affettivo. L’ intervento del terapeuta in questa fase, si basa sull’ascolto, e sulla raccolta delle informazioni, il paziente a sua volta, necessita di un ambiente in cui sentirsi sicuro e a suo agio. Questa prima fase non termina con la somministrazione di alcune scale valutative, ma continua in concomitanza con altri processi. Il processo di valutazione prosegue per tutta la durata  della terapia, è il modo attraverso cui il terapeuta valuta anche l’efficacia del proprio operato. In una terapia cognitiva, la prima cosa da fare è cercare di fare chiarezza nella testa del paziente, che arriva dallo specialista con una grande confusione, con talmente tanti problemi tutti confusi; lo specialista dunque, inizierà a sbrogliare la matassa e a suddividere i problemi in classi, recando un senso di chiarezza nonché di sollievo al paziente. Un buon psicoterapeuta durante il primo colloquio, lascerà parlare liberamente il paziente, nel momento in cui il quadro risulterà ben chiaro, deciderà quale intervento adottare e chiederà informazioni sul comportamento di esitamento del paziente, indagherà sulle situazioni temute, e soprattutto esaminerà con cura le convinzioni e i pensieri del paziente circa la sua situazione.

Nella terapia cognitivo-comportamentale, è molto importante l’esperienza diretta, per questo motivo il terapeuta propone al paziente degli esercizi in grado di suscitare le sensazioni temute, per avviare poi il processo di ristrutturazione cognitiva. Viene utilizzato lo schema dell’ABC: antecedenti, comportamenti e pensieri (behaviour) e conseguenze; un esempio è una lite con i genitori che è l’antecedente, il comportamento è il panico, la conseguenza è il senso di incapacità. L’importanza dello schema ABC sta nel fatto che il paziente imparerà a capire il valore che il comportamento ha nelle varie situazioni. Come ultima fase, c’è l’indagine approfondita dell’esordio del disturbo, si indagano i possibili eventi che ne hanno causato la comparsa. Affinché la terapia abbia buon esito, è necessario che il paziente sia fortemente motivato, ciò non significa avere un elevata partecipazione,ma, un forte desiderio di cambiamento; mentre il terapeuta si focalizzerà sulla volontà del paziente di mettere effettivamente in atto i cambiamenti che si propone. Spesso durante il colloquio, emergono delle forti resistenze del paziente al reale cambiamento, per questo vengono messe in atto delle tecniche di ascolto riflessivo, inducendo il paziente ad ascoltare i propri enunciati e a metterlo di fronte alle incongruenze espresse, in modo da fargli assumere la responsabilità di cambiare.

Il terapeuta chiederà al paziente di stilare una lista delle situazioni temute, partendo da quella più dolorosa, in questo modo il paziente comincerà a prendere coscienza del fatto che non tutte le situazioni suscitano lo stesso livello di paura, ma che alcune non raggiungono l’apice. Il passo successivo consiste nell’esposizione alla situazione temuta; provando il forte senso di paura, il paziente pian piano, attraverso la ristrutturazione cognitiva, imparerà a controllare i sintomi e soprattutto ad affrontare in modo più sereno ciò che succede intorno a lui. Uno dei compiti del terapeuta, è quello di insegnare al paziente come funziona il proprio corpo, di capire che alcune sensazioni per quanto spiacevoli, fanno parte della natura umana, che servono da difesa per reagire a pericoli improvvisi, come gli animali, infatti, l’uomo reagisce istintivamente al pericolo imminente.

Alcuni studi dimostrano che circa il 40% dei pazienti soffre di disturbo di attacchi di panico, associato a quello di fobia sociale. I due disturbi però mantengono caratteristiche diverse: il panico può insorgere spontaneamente, mentre la fobia sociale è sempre legata al contesto sociale in cui si manifesta. Chi soffre di fobia sociale sviluppa anche una forte preoccupazione verso una serie innumerevole di situazioni e comportamenti, ha paura di sbagliare nel parlare, di sembrare fuori luogo ecc… Sempre di fobia sociale si tratta, ma quella specifica, si diversifica perché strettamente connessa a un fatto o situazione precisa, ad esempio aver paura di volare, prendere il treno ecc…

Nei pazienti che soffrono di disturbo ossessivo-compulsivo, il problema sorge sempre dall’interno e non dall’esterno; è causato da una specifica compulsione insita nel paziente, ad esempio lavarsi ossessivamente le mani per paura di essere contaminati.   

Diversi sono gli attacchi di panico notturni, che non hanno una causa scatenante, ma che sono associati a diversi disturbi d’ansia, di solito compaiono durante le prime ore di sonno e spesso vengono male interpretati, infatti si pensa siano causati da incubi.

Può succedere che la diagnosi del disturbo di panico, venga accertata dopo molti tentativi erronei, infatti spesso i sintomi vengono confusi con patologie mediche.

Il disturbo di attacchi di panico, presenta molteplici sfaccettature, in alcuni pazienti si manifesta con il ricorso continuo a presidi ospedalieri per paura che sia in atto un attacco cardiaco o un ictus; in altri come una prigione dalla quale non si vuole uscire, per paura di sperimentare un attacco, ci sono infatti persone che evitano anche di varcare la soglia di casa perché paurosi di sperimentare un attacco; finiscono così per annullarsi, si creano un regime e guai a che tenti di modificarlo, ogni giorno dev’essere identico al precedente, solo così i sintomi non compariranno.

E’ chiaro che il termine panico, racchiude una molteplicità di situazioni, ciò che le accomuna sono i sintomi fisici, percepiti come catastrofici, e dai quali si cerca in ogni modo di sfuggire. Alla base c’è sempre la paura, che poi svela in ciascun individuo l’individualità, così c’è chi soffre perché non si sente più padrone di se stesso, chi non riesce a stare nei luoghi pubblici, tutti però temono la solitudine e il panico fa sentire spaventosamente soli. Le diverse manifestazioni ci mostrano i molteplici modi in cui può manifestarsi il problema, e poiché parliamo di un problema complesso, scegliere frettolosamente una terapia spesso risulta dannoso. Non ci si può infatti abbandonare ad una terapia farmacologia, che può dare ottimi risultati, si, ma solo nel breve tempo, per poi far crollare di nuovo il paziente nel baratro. Ecco perché risulta fallace, da parte di alcuni medici, somministrare antidepressivi serotonergici; così come per alcuni psicoterapeuti sperare che la terapia cognitiva utilizzata per un paziente, risulti allo stesso modo efficace per un altro, tralasciando l’importanza dell’individualità della persona. La terapia, non è altro che un percorso che si costruisce nel tempo, ascoltando ed analizzando pensieri e azioni del paziente.

In ambito clinico, il terapeuta spesso si trova davanti dei casi molto complicati, sotto vari aspetti: emotivo, comportamentale, cognitivo; ma a volte basta dare al paziente, un piccolo aiuto a risolvere anche uno solo degli aspetti, per farlo sentire meglio e migliorare il quadro patologico. Sta di fatto che solo un’analisi approfondita, permetterà di scegliere l’approccio migliore, di volta in volta.

Quando il paziente si reca per la prima volta dallo psicoterapeuta, solitamente si ritrova con un elevato grado di confusione, tanto da non riuscire nemmeno ad elencare con chiarezza i problemi riscontrati; altre volte tende a giustificare comportamenti che sono totalmente erronei; a volte si demoralizza nel constatare che non si tratta di un unico problema, ma di più situazioni concomitanti. Nel corso della terapia, si possono incontrare anche degli ostacoli, ad esempio le aspettative stesse del paziente sono un ostacolo poiché se una di esse non viene soddisfatta, il risultato sarà un forte senso di sconfitta con conseguente demotivazione.

 

 

TRATTAMENTO COGNITIVO-COMPORTAMENTALE

Il soggetto affetto dal disturbo di attacchi di panico, sviluppa delle intense reazioni a livello cognitivo, sensoriale, comportamentale; la sua vita affettiva e lavorativa viene profondamente modificata dai limiti tracciati dal panico. Le terapie cognitivo-comportamentali si basano sull’intervento psicoeducativo alla malattia, il paziente viene educato a conoscere il problema e a capirlo attraverso l’aiuto del terapeuta; le tecniche si basano sull’esposizione diretta agli stimoli temuti; le tecniche cognitive modificano gli atteggiamenti e le convinzioni del paziente.

 

LA PSICOEDUCAZIONE

Offrire al paziente un quadro esaustivo del problema, gli consente di comprendere il panico e le caratteristiche del trattamento; ovviamente queste delucidazioni non sono assolutamente sufficienti a risolvere il disturbo del panico, che ha comunque delle radici profonde, e che spesso si associa a mancanza di autonomia e difficoltà nel gestire situazioni ed emozioni. L’intervento psicoeducativo è importante perché permette al paziente di guardarsi dentro e capire cosa succede. Il terapeuta illustra il panico: questo circolo vizioso che si innesca tra i sintomi fisici percepiti e le credenze ed emozioni che seguono. Si analizza l’importanza della paura e del senso di evitamento o protezione che rendono sempre più catastrofiche le situazioni connesse al panico. Non si può paragonare il panico ad un fulmine a ciel sereno, poiché esso viene col tempo rinforzato dallo stesso paziente, attraverso credenze ed azioni, senza che esso se ne renda conto.

I primi attacchi di panico, solitamente sono inaspettati, ma con il tempo si sviluppano dei condizionamenti e delle fobie al limite della realtà. Il disagio causato dal panico è di così forte intensità che il paziente comincerà a sperimentare di tutto pur di evitarne la ricomparsa; il malessere causa dei ricordi talmente dettagliati che, successivamente, anche una situazione solo vagamente simile a quella precedente può scatenare un attacco. Solo il pensiero di rivivere quelle sensazioni, scatena una forte agitazione, solo la descrizione e comprensione degli stimoli scatenanti, rende gli attacchi meno terrificanti. Alcuni sintomi sono semplici fastidi per chi non soffre di panico, diventano delle fobie per chi ne soffre. Su un paziente che tende a sentirsi in colpa, le continue rassicurazioni del medico, potrebbero causare dei problemi, se a livello patologico non c’è nulla significa che c’è invece a livello cognitivo, quindi “impazzirò”, si convince il paziente. Si tratta soltanto di autoconvinzioni errate, come quando si pensa di non riuscire a superare un esame universitario, che poi viene sostenuto con successo. Proprio da queste credenze emerge la visione pessimistica e di “aut-aut” del paziente. I pensieri si ripercuotono sempre sulle reazioni corporee, ad esempio il pensiero di un cibo appetitoso, fa venire l’acquolina in bocca, un film d’azione provoca un aumento del battito cardiaco, il pensiero di avere un attacco di panico, induce un maggior livello d’ansia. Per quanto assurdi sembrino i comportamenti di una persona affetta dal disturbo di panico, essi sono strettamente connessi autoprotezione esercitata dal paziente. Nessuno dei sintomi del panico porta alla pazzia, basti pensare che le sensazioni di capogiro e depersonalizzazione, possono essere indotte ed eliminate, dal terapeuta, attraverso un esercizio di iperventilazione. Bisogna dunque sempre ricordare che, un attacco di panico:

-non provoca la morte o la pazzia;

-è un disturbo molto diffuso;

-l’ansia, a livelli contenuti, è un meccanismo di difesa del nostro corpo;

-tutti vivono queste intense sensazioni, ma non tutti le percepiscono come  catastrofiche;

-l’evitamento, l’uso di farmaci o l’abuso di alcol, sono solo modi devastanti, di fuggire le sensazioni connesse al panico;

-la terapia cognitivo-comportamentale, è utile a risolvere il problema;

-ogni trattamento potrebbe avere degli effetti collaterali;

-non ci si deve vergognare di soffrire o aver sofferto di attacchi di panico.

 

 

TERAPIA COMPORTAMENTALE

Lo dice la parola in se, comportamentale; questa terapia mira a ristrutturare i pensieri del malato, riportandolo alla realtà dei fatti, portando prove certe che, quel mondo di limitazioni e paure, non è altro che frutto di pensieri negativi e catastrofici, che non nascondono nessuna grave malattia. Questo disturbo non si presenta sempre nelle stesse forme, o meglio, i sintomi sono comuni a tutti i pazienti, ma gli interventi devono essere individuali, in quanto non tutti hanno le stesse paure e non tutti evitano le stesse situazioni. Di solito il primo attacco di panico è improvviso, ma così intenso da lasciare un segno indelebile nella memoria del paziente, che comincerà a temere quella situazione o simili, e soprattutto comincerà ad elaborare una serie di pensieri pessimistici e catastrofici; il problema si risolverebbe se, invece, pensasse in modo ottimistico. Dapprima si evitano determinate situazioni ad esempio prendere l’autobus, poi le limitazioni saranno sempre più costrittive: i mezzi pubblici in generale, i luoghi affollati, gli spazi chiusi ecc…  E’ necessario ricordare che il panico ha conseguenze negative non solo attraverso i sintomi fisici che si percepiscono, ma anche e soprattutto a livello cognitivo e comportamentale, da qui l’importanza di una buona terapia. Uno degli aiuti migliori che si possa dare al paziente, è quello di superare le paure e le situazioni sgradevoli, facendogliele affrontare, di volta in volta, l’esposizione sarà sempre più sopportabile e meno traumatica. Un altro aiuto importante, è quello di utilizzare tecniche di rilassamento, per evitare che il corpo si stressi e ceda all’ansia, che diventerà col tempo una vera e propria trappola. Il paziente, comunque, dovrà imparare ad accettare i sintomi fisici del panico, e a capire razionalmente, che cosa avviene realmente nel suo corpo e cosa invece a livello emotivo e cognitivo.

La terapia cognitivo-comportamentale, utilizza il metodo dell’esposizione graduale alle situazioni temute, tale tecnica ha dimostrato di essere particolarmente efficace, nei pazienti con agorafobia; ricordiamo che le paure per determinate situazioni, non nascono all’improvviso, ma hanno dei precedenti, anche attraverso i vari condizionamenti. L’attacco di panico, non dura a lungo, ma nonostante questo i suoi sintomi sono forti, la paura arriva al massimo livello, quando, ci si trova esposti alla situazione temuta; in questa situazione, la paura scema da se, se il paziente non cerca di fuggire, ma anzi tenta di fronteggiarla. Così l’ansia, che prima era una risposta alla situazione specifica, diminuisce, poiché non è più tanto coinvolgente come prima. Solo in questo modo, quando il paziente, si troverà a fronteggiare di nuovo la stessa situazione, non svilupperà più una forte ansia. Il paziente dovrebbe rendersi conto che la soluzione al problema, non è fuggire, ma affrontare la situazione, si avrà così un momento di intensa paura e ansia, che però andrà via via  scemando, il paziente si sentirà sfinito, ma sarà relativamente tranquillo. In una terapia cognitiva, la tecnica dell’esposizione, risulta efficace, perché mette a dura prova le convinzioni, le aspettative ele reazioni emotive, del paziente. Ovviamente prima dell’esposizione, il paziente comincerà ad immaginare cose catastrofiche, quindi la smentita di tali situazioni, è un aspetto cognitivo importante; nel rivivere tali sensazioni si avranno forti reazioni a livello organico, quali tachicardia, forte sudorazione; affrontare quindi le sue più profonde paure, gli servirà per comprendere anche le reazioni del suo corpo. Poiché l’esposizione volontaria, non è altro che l’opposto della fuga, questo mutamento, aiuterà a capire che le precedenti strategie utilizzate, erano errate. Il fine della tecnica espositiva, è quello di far comprendere al paziente, che aveva costruito un cumulo di convinzioni e condizionamenti, che invece che aiutarlo, limitavano quasi del tutto la vita; imparerà a non aver “paura della paura”; ovviamente nessuno è esonerato dall’ansia, ma chi soffre di panico, riprenderà a condurre una vita certamente più serena. L’obiettivo della terapia cognitivo-comportamentale, non è quello di far sparire con la bacchetta magica l’ansia, ma di aiutare il paziente a comprenderla e a saperla controllare e superare.

 

TERAPIA COGNITIVA

Alla base della terapia cognitiva, c’è un concetto essenziale: le emozioni e i comportamenti, non dipendono dagli eventi, ma dal modo in cui il soggetto li interpreta; infatti essere in coda in una banca, non è una situazione di per se catastrofica, ma viene interpretata così dalle immaginazioni e aspettative del soggetto. E’ il ragionamento in se, di chi soffre di attacchi di panico, ad essere distorto, poiché ha costruito degli schemi cognitivi troppo rigidi, la sua attenzione è concentrata sugli aspetti negativi delle cose, e sul vivere e percepire i sintomi fisici come estremamente minacciosi.

Il paziente affetto da DP, tende a fossilizzarsi sui sintomi fisici che percepisce, ossia: battito cardiaco accelerato, sudorazione, rossore, senso di soffocamento ecc…; amplificando così i sintomi e tendendo a fraintendere la pericolosità della situazione. I meccanismi di difesa che ne seguono, contribuiscono largamente a mantenere nel tempo questa situazione patologica, in due modi: riducono la possibilità di disconfermare le aspettative minacciose; e peggiorano i sintomi a livello somatico e cognitivo.

Gli attacchi di panico di un paziente, con il tempo tendono a rassomigliarsi tra loro, infatti c’è chi reagisce al senso di soffocamento, chi ai sintomi cardiaci, chi a quelli psichiatrici; ci sono in ogni soggetto delle crisi che rimangono impresse nella memoria, il paziente ne ricorda perfettamente ogni particolare, e proprio sulla base di tali dettagli, il terapeuta può incominciare ad analizzare la situazione, ed ecco perché solitamente il terapeuta raccomanda al paziente di annotare su un diario giornaliero tutte le sensazioni percepite. L’ansia è innescata dal fraintendere le sensazioni corporee, tali fraintendimenti non fanno che aggravare la situazione, poiché il paziente si convince sempre più della gravità dei sintomi percepiti. Inizia così la fase dell’evitamento, il paziente eviterà situazioni per lui pericolose, che potrebbero ridicolizzarlo o che potrebbero innescare una crisi di panico; anche il livello di fuga può essere più o meno intenso, e interferire in misura diversa sulle normali attività. Il soggetto comincia così a circondarsi di persone e oggetti che danno sicurezza, fanno continui controlli, ad esempio del battito cardiaco, della pressione; cercano qualsiasi modo per distrarsi: ascoltare musica, leggere; oppure evitano qualsiasi sforzo fisico, nel tentativo di fuggire i sintomi patologici.

Solitamente i pazienti affetti da DP, raccontano di alternare giorni relativamente tranquilli a giorni estremamente cattivi, questi ultimi caratterizzati da ansia, angoscia, paura che stia per accadere qualcosa di estremamente pericoloso, quindi con una incidenza plurima di attacchi di panico ed evitamento agorafobico. Se si chiede il perché di questi giorni pessimi, il paziente avrà serie difficoltà a rispondere, indagando, spesso, compaiono cause capaci di indurre gli stessi sintomi causati dall’ansia, come l’eccesso di caffeina, mancanza di sonno, la fase premestruale ecc…

Il rapporto che si instaura tra paziente e terapeuta, incide tantissimo sul buon esito della terapia, dev’essere un rapporto di piena fiducia nel terapeuta che non deve fornire al paziente le risposte al problema, ma deve stimolarlo alla comprensione.

Dal punto di vista cognitivo, le forme del pensiero ansiogeno, sono plurime, eccone alcune:

-astrazione selettiva: il paziente tende a considerare vero ciò che conferma i pensieri e non da importanza a ciò che li smentisce; infatti chi teme di avere un infarto, tende a concentrarsi sul cambiamento della frequenza cardiaca, molto più di quello riferito dal medico;

-saltare alle conclusioni: molto spesso il paziente decide in breve tempo se una cosa è giusta o sbagliata, già quando percepiscono un piccolo sintomo, si convincono di avere una grave malattia, aumenta così l’ansia e perdono il controllo della situazione;

-catastrofizzazione: i pazienti tendono a considerare gli eventi futuri come sicuramente negativi, come sicuri fallimenti;

-soprageneralizzare: alcuni pazienti hanno vissuto esperienze dolorose, e tendono ad associare condizioni esterne a tali sensazioni; se si è stati male in un ambiente chiuso tenderanno ad evitare tutti gli spazi chiusi, senza pensare che in quell’occasione poteva esserci aria consumata che dava fastidio.

-tutto o niente: i pazienti pensano in bianco o nero: o sarà un successo o un totale fallimento; cominciano a creare una fitta serie di regole in cui compaiono le parole: tutto, niente, mai, sempre…

Il terapeuta può quindi aiutare il paziente a riconoscere le idee disfunzionali più comuni.

 I pensieri ansiosi, sono di per se, disfunzionali, errati, distorti, anche se nel momento in cui vengono vissuti, sembrano realissimi. Essi hanno la capacità di fagocitare gran parte della vita, perciò sarebbe bene metterli alla prova e porsi delle domanda sulla loro veridicità. Il terapeuta, infatti, aiuta il paziente a riflettere sulle situazioni e sui sintomi fisici che lo affliggono, provando, con dati alla mano, che ad esempio, durante un attacco di panico non si sviene, non si diventa pazzi o non si ha un infarto; in questo modo il paziente può prendere coscienza che tutte le  barriere che ha costruito intorno a se, non poggiano altro che su un cumulo di sabbia. Altro compito del terapeuta è quello di far capire al paziente i significati particolari assegnati a precise definizioni, come “che cosa significa essere ansioso?”. Bisogna analizzare le prove dei probabili, ma non certi fallimenti, in effetti c’è sempre la possibilità di sperimentare un fallimento, ma è anche vero che l’eccezione non conferma la regola. Non serve sempre far ricadere le responsabilità di un insuccesso, su se stessi; infatti alcuni disagi possono derivare da cause esterne, che comunque sono sempre transitorie. Il paziente deve avere una vasta gamma di alternative, non deve fare affidamento solo sulla fuga o evitamento, ma deve poter scegliere l’alternativa corretta per avere un maggiore controllo su pensieri e azioni. Chi soffre di attacchi di panico o ipocondria, tende a considerare ogni sintomo fisico, come precursore di una morte imminente; soltanto affrontando un problema lo si può risolvere, se lo si evita, esso tenderà ad essere percepito come una vera e propria calamità. Il terapeuta, dimostra al paziente, che ci sono per ogni azione e pensiero, dei pro e dei contro, e lo invoglia a vedere il lato buono delle cose, anche quando ci sono dei problemi. E’ però necessario, portare alla luce tutte le distorsioni accumulate dal paziente; abbandonare la filosofia del “tutto o niente”. Il paziente affetto da DP, spesso crea delle associazioni  tra immagini terrificanti e sintomi percepiti, lo si deve invogliare a fare associazioni sempre meno pericolose.

Per aiutare veramente un paziente, lo si deve invogliare a raggiungere degli obiettivi, che devono essere: positivi, adeguati, raggiungibili, specifici, concreti, gratificanti e che arricchiscano la persona.

Vicino ad una persona che soffre di attacchi di panico, ce ne sono altre che devono fare i conti con questa situazione: mariti, mogli, genitori ecc…; ovviamente anche il comportamento dei familiari, incide non poco sulla cura o sul mantenimento del disturbo. Il disagio psicologico, spesso, coinvolge intere famiglie in modo infido, senza che gli stessi se ne rendano conto. Il DP è un disturbo che permea corpo e mente, dalla sintomatologia forte della quale difficilmente si riesce a dare una spiegazione. Nei primi mesi dalla comparsa del disturbo, per i familiari è quasi impossibile capire cosa stia succedendo alla persona amata, che come unica spiegazione da la paura di impazzire o morire. L’attacco di panico, rende evidente un lato della personalità di una persona fino ad allora sconosciuto, e manifesta l’esigenza di comprendere meglio se stessi. In questa situazione, i familiari, sono quasi il perno intorno a cui tutto ruota, essi sono al tempo stesso causa e oggetto del disordine affettivo del congiunto; e tentano di aiutare spesso in modo fallimentare, si sentono in colpa o minimizzano il problema. Chi soffre di panico oscilla sempre fra la ricerca di libertà e quella di protezione, innescando così una serie di attacchi di panico e distorsioni. In genere ognuno di noi, cerca, nel corso della propria vita, di costruire delle relazioni stabili; ancor di più nei casi di panico si cerca di avere al proprio fianco qualcuno su cui appoggiarsi anche a scapito della propria autonomia. Spesso a soffrire di panico, sono persone che non hanno mai fatto affidamento su altre persone, ma che cambiano opinione quando attanagliati dal panico, cercano disperatamente qualcuno che crei una barriera protettiva.

Quando all’interno di una famiglia, qualcuno sviluppa un disturbo di panico, tutti sono coinvolti; una delle emozioni preponderanti è l’ansia, che dal paziente si trasmette a tutta la famiglia; si comincia così a non dire o fare determinate cose per paura di creare disagi; infatti chi soffre di panico, tende a considerare la preoccupazione dei familiari, come conferma della propria fragilità e come prova dell’esistenza di un grave problema. A volte non comprendendo il disagio del malato, si tende a comportarsi in modo aggressivo e ostile; o anche in modo rassegnato e impotente, di fronte all’incapacità di trovare una soluzione al problema.

I farmaci permettono al paziente di alleviare i sintomi e di sentirsi più calmi, la psicoterapia permette di conoscere a fondo i propri pensieri, emozioni,aspettative ecc…

Una delle terapie utilizzate per curare i disturbo da attacchi di panico, c’è quella della desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari EMDR; questa tecnica è importante perché ribadisce l’importanza di piccoli e grandi traumi  vissuti nei primi anni di vita. L’effetto drammatico non dipende solo dall’intensità dell’evento, ma anche, dalla capacità di elaborazione cognitiva; un evento insignificante per un adulto, può essere traumatico per un bambino. L’EMDR, sfrutta i movimenti oculari per intervenire su patologie legate a situazioni traumatiche passate, che continuano ad influenzare il presente. Durante questa tecnica, ci si focalizza sui ricordi e su elementi associati ad eventi traumatici; l’obiettivo è di, attraverso il ricordo di momenti di forte disagio, di rielaborare il tutto. Le cognizioni negative non sono altro che i termini che utilizza il paziente per ricollegarsi al trauma, ad esempio chi soffre di DP, tenderà a ripetere” non ho il controllo della situazione”. In virtù di ciò, risulta utile creare una serie di cognizioni positive, per  stimolare pensieri positivi su se stessi. L’EMDR, non viene utilizzato solo per eventi traumatici passati, ma anche per controllare situazioni ansiogene presenti.

Articolo a cura del Dott. Pierpaolo Casto – Psicologo e Psicoterapeuta – Specialista in Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale

Si consiglia la visione dei seguenti video di approfondimento sulla cura dell’ansia e degli attacchi di panico (A cura del Dott. Pierpaolo Casto):

“Come guarire dagli attacchi di panico: la verità”

“Come curare ansia e attacchi di panico”

“Attacchi di panico: la cura definitiva”

“Curare gli attacchi di panico: strategie per affrontarli e superare”

“Attacchi di panico: la cura più efficace”

 

 
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